Arcangelo
Di Veronica Zanardi
Il Museo Butti|Contemporanea, dopo la mostra di Mario Raciti, propone alcune opere, una piccola antologica di una personalità rilevante nel panorama della pittura contemporanea, quella di Arcangelo, percorrendo un itinerario che si muove su altri sentieri, seppur paralleli.
Arcangelo si affaccia nel panorama pittorico italiano, fortemente segnato dalla corrente trasavanguardista, negli anni Ottanta, ma la sua ricerca si discosta fin da subito da questa tendenza contemporanea per prendere tutt’altra direzione.
Il forte legame affettivo, quasi viscerale, con la propria terra lo vincola ad altre scelte. Le opere esposte ne vogliono essere testimonianza invitando a scoprire come questo legame si manifesti da subito con l’individuazione di temi e materie che saranno protagonisti della sua ricerca, con la forza e l’attaccamento delle cose ineluttabili, ma totalmente sprovviste di mollezza sentimentale.
Giustamente Gramiccia definisce la personale sensibilità di Arcangelo “ulissica”.
Odisseo, anche se viene quasi unanimemente identificato come l’inossidabile eroe che più di ogni altro si muove, che non rinuncia a un dinamismo esasperato per soddisfare nuove conoscenze, il cui intento altro non è che il desiderio dell’altrove, a una lettura più profonda, svela la sua vera indole. Ulisse non è la figura con più potere, o forza, o autorità tra quelle che combattono sotto le mura di Ilio: la qualità che più di ogni altra Omero gli attribuisce, e che più lo identifica, è quella di “paziente”. Chi è paziente sa vivere le passioni dominando il phatos. Nelle sue imprese, imposte o volute, sembra perennemente agitarsi, ma a muoversi è in realtà tutto ciò che gli gira attorno: per assurdo, il suo moto è statico, interiore. La sua pulsione è volta a raggiungere la calma riflessiva che coincide con una piccola isola, la sua terra di origine, dove poter elaborare ciò che è avvenuto lontano. Ulisse non si muove o lo fa con movimenti minimi e indispensabili: è immobile nel ventre del cavallo da lui stesso ideato; è quasi fermo, legato, quando le sirene cantano il loro canto esasperato, e non smania, una volta uscito indenne da questa prova, né si agita per mettere in dubbio il potere delle loro voci. Il suo ultimo viaggio, quello dantesco, è compiuto per raggiungere “di retro al sol” l’immobilità totale, conscio che questa calma assoluta è ciò che permette il movimento universale. La sensibilità “ulissica” è dunque quella che porta ai movimenti minimi, alla pazienza che rielabora la materia del suolo di origine, la luce di calce accecante e le notti di carbone del Sud. È la capacità di elaborare nel silenzio interiore le frenesie esterne, ruminare per creare una cosa nuova di cui si è gli autori, un’opera che, anche se in minima parte, cambia il mondo.
Ho avuto la fortuna di collaborare con l’autore, condividendo un anno d’insegnamento. Sono stati un legame e un periodo fruttuosi, di crescita: da una parte l’offerta di una capacità didattica, dall’altra la forza di una trasmissione emotiva del tutto personale, come del tutto personale è l’opera pittorica di Arcangelo. La collaborazione ha trovato la propria linfa soprattutto in questa sensibilità “ulissica”, con progressi costanti e quotidiani, con scoperte e riflessioni che lasciano sempre sentieri aperti a una nuova elaborazione. Mi è rimasta una traccia importante e leggibile proprio grazie alla presa di coscienza di questa interiorità dinamica.
La vita artistica di un autore è spesso legata a dei cicli. Questa piccola, ma esaustiva mostra, raccoglie opere che datano dai primissimi anni Novanta del secolo scorso, per arrivare agli ultimi anni di questo secolo.
Fino al ciclo Pianeti, e poi oltre, il soggetto è la terra d’origine: l’Irpinia brama, quasi impone, la propria materia. La tela è un lenzuolo bianco di bucato, i colori sono quelli dello sguardo quotidiano dell’arsura, e quando piove il marrone è il bruno del fango che si attacca ai piedi. A partire dal segno fino al colore tutto è spirituale. Nel ciclo dei Misteri, marroni e neri ritornano. Riti cattolici-pagani si sovrappongono a riti africani d’iniziazione. Il rosso violento e prezioso del sangue vincola i flagellanti delle processioni al sangue quotidianamente imposto e versato nella savana. Le pulsioni della natura legano tutti al di là del tempo e del luogo. I passi della danza e della processione coincidono, e il nero accomuna il carbone alle notti africane.
Arcangelo riesce a mantenere il senso dell’epifania.
Negli anni più recenti è ancora una volta la terra d’origine a calamitare l’artista. Le opere non sono evocazioni di relitti arcaici, ma il pulsare dell’anima antica annienta la tirannia del tempo.
I fiori di croco restano immobili tra le pietre dell’Appia antica.
Alla visione di alcune opere sembra coglierci alle spalle un rumore sordo, inaspettato, che pare affiorare da chissà quali sommovimenti tellurici, quasi come l’ultima nota del frastuono primordiale, forse di qualcosa che era stato preannunciato, ma che oramai è indecifrabile.
Dopo l’emozione spontanea il tempo della lettura per lasciare penetrare, rielaborare e sedimentare quanto visto.
Arcangelo: pittore ulissico
di Roberto Gramiccia
Emilio Villa, il grande maestro poliglotta del pensiero e della parola, definì Giulio Turcato un pittore ulissico. Io credo che questa definizione oggi calzi a pennello a un solo pittore in Italia. Questo pittore si chiama Arcangelo e fa tappa con la sua nave (la sua arte) in un porto sicuro: il Museo Butti/Contemporanea di Viggiù che accoglie una splendida, imperdibile selezione delle sue opere, recuperate da tempi realizzativi diversi e anche relativamente remoti. Ma che significa essere orgogliosamente “ulissico”? Se Ulisse rinascesse oggi non farebbe “carriera”. Non solo non avrebbe senso il cavallo di Troia (oggi Troia sarebbe rasa al suolo in pochi minuti con un paio di missili teleguidati), ma non avrebbero senso i suoi amori, i suoi viaggi e le sue avventure. Non ci sarebbero né Proci, né vendette. Ma soprattutto Ulisse non ripartirebbe, dopo venti anni di rassicurante tepore domestico, per puntare e doppiare le Colonne d’Ercole alla ricerca dell’ignoto.
Oggi delle Colonne d’Ercole non frega più niente a nessuno. Non esistono più utopie, né sogni da realizzare. La calma piatta del postmoderno e del postcontemporaneo, purtroppo, è lacerata solo dalle pandemie, come quella da Covid che ha fatto milioni di morti. Oppure dalle guerre e dalle stragi, come in Ucraina, come a Gaza, che misurano con castelli di cadaveri e montagne di macerie il fallimento di un Occidente ormai alla frutta. Così “…il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (Gramsci). Di questi fenomeni la crisi dell’arte è un esempio doloroso. La sua resa di fronte al pensiero unico omologante e mercatista, così come al sistema di potere che gli fa da gendarme, è lì ad indicare la palude nella quale ci ritroviamo oggi. Una palude in cui, tuttavia, Ulisse avrebbe navigato per raggiungere ancora una volta il mare.
E’ proprio questo l’atteggiamento mentale e pratico di Arcangelo: un artista eretico, un libero pensatore bruniano che, nonostante la mefitica bonaccia, continua il suo viaggio e, oggi, approda in questo piccolo ma prezioso museo, a portare la testimonianza della sua pittura scortese e seducente. Arcangelo, uno dei pochi pittori-pittori veramente di talento nel pieno della sua maturità, degli sfinimenti e delle atmosfere soporifere del post-contemporaneo non ne vuole sapere. Da molti anni prosegue il suo viaggio fisico e mentale, con il coraggio ma anche con la cortesia di chi – come ci è capitato di scrivere – “gira il mondo con in mano una bottiglia di vino (o di rum) per offrire a chi incontra una bevuta”.
In un tempo di guerra, questo artista campano a me sembra un messaggero di pace. Un partigiano della pace che, senza fare proclami, dipinge le trame di un manifesto pittorico apolide, una volta si sarebbe detto “internazionalista”, che comunica – in cerca amicale dell’altro e dell’altrove – il sentimento panico di una curiosità solidale che è ragione di vita, ulissica appunto e “moderna” nel senso più autentico del termine. Come eloquentemente raccontano i dipinti esposti in questa occasione, la pittura di Arcangelo si distende con la naturalezza di un temporale in un bosco o in una foresta tropicale, avanzando fra un minimo di figurazione e un massimo di vibrante e anti-graziosa astrazione.
Introspezione più che rappresentazione. Esplorazione dell’ignoto piuttosto che cronaca del presente. Pittura di gesto ma anche di sapienza compositiva figlia di una tradizione antica. Vitalismo pulsante e inesauribile volontà di ricerca che riconcilia con la pratica di azioni e pensieri ispirati a idee forti e non alla rassegnazione “debolista” di chi si acconcia a “passare la nottata”. Ecco, Arcangelo, con la sua arte, la nottata la vuole rendere indimenticabile, come una notte d’amore con la più bella e amata delle donne.
Vaso libanese a Beirut, Stanza dei misteri, Sento sempre più vicino il deserto, Alba araba, Lunga notte dei santi pagani sono alcuni dei titoli delle opere esposte. Sembrano versi di una poesia che escono dalla stanza come note musicali in viaggio da un continente all’altro, da una dimensione all’altra – anche antroposofica – senza tentennamenti, senza paura. C’è poi un dato che rende inconfondibili i quadri di questa ulissica creatura: il fatto che chi li osserva si sente conquistato senza che, apparentemente, su di lui sia stata utilizzata alcuna pratica corrente di manipolazione, alcuna ruffianeria. Il mistero di una pittura “insolente” che viene percepita come gentile; che dà ristoro e porta conforto, senza sedare come fanno le benzodiazepine ma svegliandoti come fa una tazzina di caffè doppio, molto forte, al mattino.