Il segno nel colore

Il segno nel colore
di Veronica Zanardi

Con la mostra Claudio Verna – Carte il Museo Butti | Contemporanea propone una riflessione sull’opera grafica dell’artista, che si è sviluppata in oltre cinquant’anni di indagine pittorica.
Le diciotto carte esposte ripercorrono la ricerca di Verna dallo scorcio degli anni Cinquanta fino agli ultimi esiti espressivi, uno studio che ha visto svilupparsi parallelamente le espressioni grafiche e quelle pittoriche: i momenti dedicati all’una o all’altra pratica, infatti, si alternano, non si sovrappongono.
Il lavoro su carta per Verna è un campo di esperienze autonome: non precede, separandosene, la pittura, ma ne è parte. Il tema rimane la pittura, a cui contribuiscono anche le intermittenze del segno, che definisce una struttura attraverso il segno-colore oltre ogni rapporto di subordinazione.
Si stabilisce dunque una saldatura tra il segno grafico e la pittura, per cui il gesto, la luce, l’immediatezza del movimento, tutto ciò che avviene altro non è se non una delle pietre angolari che ci permettono di godere, di vivere ciò che ci è possibile conoscere come unica entità. È soprattutto questo che, con il lavoro di una vita, ci offre Claudio Verna.
Le carte in mostra rendono evidente da subito che i suoi gesti non si concretizzano in scampoli ben assortiti di colore, né in tracce attentamente studiate di un percorso logico che permetta di giungere finalmente al cuore di una verità. I pastelli aprono uno spiraglio sul mistero, su ciò che succederà o potrebbe succedere al segno una volta che l’autore abbia innescato con mano il processo ininterrotto da cui emanano flussi di energia.
Fin dai pennarelli del 1959 il segno aleggia alla ricerca di un luogo dove poter proliferare: il foglio è uno sciamare di insetti cosmici, la cui stigmatizzazione di traiettorie che indagano lo spazio immediatamente circostante altro non è se non la scoperta di una funzione del disegno già pienamente avvertita, ma non ancora del tutto manifesta.
Durante l’ininterrotta ricerca segno e campo grafico si vanno definendo in maniera strutturale come entità intrinsecamente connesse: non si tratta di funzioni in stretto rapporto, bensì di un unicum teso alla ricerca di un agente forse celato in qualche luogo di una memoria atavica, che ha però mantenuta integra la sua energia unificante. Significative in tal senso risultano le carte degli anni Settanta.
Sul finire del decennio successivo e nel corso degli anni Novanta i segni si fanno scarni e, tingendosi, individuano con immediatezza la loro posizione naturale sul fondo del foglio per poi arrestarsi lì, mantenendo l’indicazione direzionale della loro origine comune: è l’attimo in cui dall’intuizione si sprigiona l’immagine.
Ciò che fino a quel momento poteva sfuggire all’osservazione si spezza, si posa, per poi ricomporsi in un gesto nuovo e vitale. Sono i momenti in cui tutto pare dilatarsi e perdere misura, e ogni frammento di segno può occupare, da solo, l’intero campo visivo tanto la voce di ogni gesto emette una vibrazione corale.
Nelle opere del 2016-17 la carta è contaminata dallo stemperarsi in una sorta di pulviscolo, risultante della sovrapposizioni di maglie segniche, trame e orditi, che si dissipa o si raggruma in materia friabile, e da ultimo si converte in flussi di luce pregni di una compiutezza che non chiede commenti, ma solo contemplazione.
Spesso l’anarchia del segno testimonia la volontà di azzerare il tutto e ricominciare non da una rappresentazione informale di attimi emotivi, ma dalla scaturigine dell’energia primaria, dall’attimo in grado di generare il segno che illumina tutto ciò che gli sta attorno.
Proprio questa anarchia, colma di tensioni vitali, assicura una fondatezza di ricerca, per cui tutto ciò che verrà rappresentato sarà intriso di un incontrovertibile impulso alla scoperta.
Ci sono fogli in cui il bagliore di un’esplosione di energia si identifica con il giallo acceso del pistillo di zafferano; allora l’input vitale lascia che lo si avverta con le infinite, possibili manifestazioni coniugate a sé. Sono immagini di stupefacente tensione: il segno si identifica, per quanto possibile, con un gesto primario, quello che ha segnato un qualche inizio. L’aria è immobile, solo la luce esplode, solo il gesto che traccia si muove. Non si ode, ma si avverte l’odore dinamico di ciò che si sta componendo.
Non c’è mai niente di ridondante, nulla che lasci supporre l’oltre misura; tutto è asciutto ed essenziale, lasciato all’indice dell’energia che scaturisce dal segno.
Quando il campo visivo diviene un corpo quasi omogeneo attraverso un fitto sovrapporsi di segmenti percettibili solo da minime, appena avvertibili variazioni di tinte e di luce, Verna scongiura la possibilità di una frattura tra il tempo esterno dell’osservatore e il tempo interno appartenente all’opera, che non devono avere passi diversi, ma possano scoprire avvalendosi di movimenti sincroni la perenne metamorfosi del segno e del colore.

Dipingere “in presa diretta”, espressione di libertà
di Massimo Bignardi

A distanza di poco più di un anno, torno a scrivere dell’esperienza artistica di Claudio Verna, scegliendo come argomento d’incontro le sue continue e prolifiche incursioni nel disegno e, in particolare, nella pratica del pastello. A introdurre questa ulteriore riflessione, è la lettera, rimasta inedita, inviata dall’artista a Daniela Fonti, curatrice della mostra antologica, dedicata per l’appunto ai pastelli realizzati da Verna tra il 1966 e il 2000, allestita tra dicembre di quell’anno e gennaio del 2001 nello storico complesso museale Carraresi-Brittoni a Treviso.
Il primo aspetto che l’artista evidenzia e sul quale torna più volte, è la necessità di far coincidere “segno e colore”: ossia di tendere ad accelerare un valore semiotico maggiormente, se non prevalentemente, espressivo. Lo fa ricorrendo a colori carichi, sul piano estetico, di un’energia fisica che trasmette agitazione, qual è il rosso e, prim’ancora, il nero, per definizione ‘non colore’ con il quale realizza la serie dedicata alle Metamorfosi di Kafka, disegni della fine degli anni Cinquanta. Dopo questa data il colore torna ad assumere il suo primario carattere, cioè espressivo, avrebbe detto Itten, vale a dire comunicativo dell’inesprimibile, conferendo al segno, aggiunge Verna, il “corpo” e la “materia”.
L’espressione diviene presenza nel segno, nel suo corpo e, al tempo stesso, si fa linguaggio grazie al colore che noi percepiamo nel suo valore retinico: un segno-colore, per la sua immediatezza e rapidità compositiva, si discosta dal carattere proprio dei suoi dipinti, nei quali, ricorda l’artista, è “il colore che ha dentro di sé la struttura del quadro”.
La tecnica del pastello riduce la distanza della mano, delle dita, dalla superficie della carta. Eliminando ogni ulteriore ‘protesi’ (il pennello) dà luogo a una maggiore spinta nello spazio impalpabile del foglio bianco. Non è un caso che Verna paragoni la tecnica del pastello a quella del modellare la creta: non è un esemplificazione per meglio spiegare un dato tecnico. Ritengo, invece, che esso esprima una effettiva sensazione, sentire la materia colore in un spazio mentale, ove la scala dei volumi si affida alla vicinanza o distanza, di stati emozionali. Infatti è lo stesso artista a sollecitare tale riflessione, quando afferma in un scritto, dal titolo Come dipingo, apparso nella rivista “Quaderni di Arte Contemporanea” pubblicata nel 2010: “Ho sempre pensato – si legge – che la cultura, il pensiero, le esperienze fatte, ad un certo punto entrino a far parte della tua stessa natura e ti consentano di captare impulsi che vengono dal profondo, magari rimasti oscuri per lungo tempo”.
I pastelli proposti in questa mostra tracciano una sintesi, ben equilibrata, che pone in evidenza i punti di passaggio, sul piano delle scelte compositive che, di volta in volta, Verna ha aggiunto o sottratto alle esperienze precedenti: è un percorso breve ma significativo che prende l’avvio con alcuni disegni realizzati, con il pennarello nero, nel 1959. Sono anni cruciali e difficili per l’arte, nei quali la tensione esistenziale, propria dell’Informale storico, si era oramai esaurita. In quei segni carichi di automatismo, contorti, arruffati come matasse di fil di ferro, si palesa, attingendo a quanto scriveva, nello stesso anno, Restany a proposito della pittura del gesto la “necessità ideale di liberazione e della piena espressione di sé che portano, in una logica del paradosso, all’unione più esclusiva tra l’artista e l’opera”. L’attenzione si sposta poi sulle esperienze degli anni Settanta, nelle quali affiora una certa struttura come nei due pastelli del 1976, tra questi Studio per Nero tre e nel collage su carta del 1974. Come ho avuto modo di scrivere, sono questi gli anni che lo vedono tra i principali interpreti della pittura analitica e, al tempo stesso, registrano la sua affermazione sulla scena nazionale e internazionale. Verna, nella semplicità compositiva, tutta proiettata a considerare i mezzi e la pratica della pittura, non chiede una verifica del mondo fenomenico, tanto meno di scivolare nei fluidi corsi dell’astrattismo, ma di farsi espressione di un processo emotivo in continuo rinnovamento.
L’attenzione si sofferma su opere, realizzate tra la fine degli anni Ottanta e Novanta, documentate in mostra, da un pastello del 1989, ove la libertà del gesto dilata ogni sua energia, e da una carta del 1992 nella quale si scorge l’infittirsi della trama del segno-colore: attenzione che si spinge alle esperienze realizzate nei primi due decenni del nuovo millennio. Del 2007 è un bellissimo pastello, nel quale l’artista lascia leggere sui lati di destra e di sinistra, l’ordito dei sottilissimi segni che organizzano la campitura cromatica posta al centro, oppure il Discorso sul segno: allegoria, un pastello ad olio di grandi dimensioni del 2018, ove il ricorso ad un unico colore, in questo caso l’arancione, permette all’artista di insistere sul corpo oleoso del segno, sui pieni e sui vuoti, sull’irregolare intervallarsi di orditi orizzontali e verticali.
Il tentativo dell’artista è sottolineare, con estrema chiarezza, l’idea della “presa diretta”: penso che voglia dire, essere lì nel campo, nel micro luogo ove si afferma quello che Merleau-Ponty definisce enigma della ‘visibilità’ che la pittura celebra. Visibilità da non intendere legata al fenomeno della percezione, bensì a un processo soprattutto culturale, perché essa traduce la perfetta sintesi della coscienza.