Mario Raciti

Un nuovo impulso
di Veronica Zanardi

Per orientarmi nel delineare, attraverso queste poche righe, le mie intenzioni, e forse la mia visione, rispetto al ruolo, assunto di recente, di conservatrice dei Musei Civici Viggiutesi, e in particolar modo del Museo Butti | Contemporanea, vorrei raccogliere quanto già scritto dal fondatore Gottardo Ortelli in occasione della collettiva ArteContemporanea 1, acquisizioni e donazioni, del 1992. Se è infatti vero che un museo giovane deve lavorare per creare una prospettiva culturale in cui la propria esistenza trovi effettivo fondamento, ebbene nelle intenzioni di Ortelli è possibile cogliere tale prospettiva, utile a definire un ambito di riflessione entro cui operare scelte e indagini. La millenaria storia artistica viggiutese, ricca di eventi di alto valore, che vede rappresentata nel Museo Butti solo una minuscola porzione di quanto ha lasciato in eredità al mondo, vuole continuare ad essere partecipe ed attiva nei fatti dell’arte, rivivere nell’oggi ed essere fautrice di nuove avventure. […] Abbiamo realizzato, anche nell’ambito contemporaneo, mostre di alto livello, alcune memorabili dedicate ad artisti di qualità e levatura indiscussa, ma abbiamo saputo anche cogliere tempestivamente l’affermarsi di personalità che hanno trovato poi più vasti consensi…
Questa prima esposizione nella nuova sede museale dedicata al pittore Mario Raciti vorrebbe dunque inserirsi nel solco di una tradizione attenta al contemporaneo, inteso come luogo di transito tra il passato e il futuro, mantenendo l’alto livello e la levatura indiscussa delle memorabili mostre curate dal fondatore. Ad accompagnarne la lettura, il testo critico del suo più importante studioso, Sandro Parmiggiani, che ancora ringrazio per aver accettato con generosità questa collaborazione. Tra le tredici opere a ripercorre i sessant’anni di ricerca dell’artista, sono stati selezionati cinque pastelli dei primi anni Duemila. Ancora una volta la scelta muove dalle illuminate intenzioni del fondatore, che ho recepito con grande interesse. Tra le opere scelte prevalgono i disegni, i progetti, i lavori su carta: riflettono tutti il momento più istintivo e segreto del linguaggio dell’artista, e per questo anche il più scoperto e rivelatore. […] E dunque il disegno riveste un’importanza documentale unica, soprattutto se anche a livello espositivo affianca l’opera cosiddetta maggiore. Vorremmo nel tempo costruire questa raccolta intorno ai due poli di genesi e opera.
Il mio auspicio è che la mostra dedicata a Mario Raciti inauguri una stagione di iniziative capaci di imprimere un nuovo impulso alla vita del Museo e alle diverse realtà culturali operanti sul territorio.

Mario Raciti, una pittura che respira aria d’altrove
di Sandro Parmiggiani

Stilare un testo di introduzione all’esposizione di Mario Raciti al Museo Butti di Viggiù può sembrare un compito abbastanza agevole, almeno per chi, come me, conosca l’opera dell’artista, lo abbia frequentato, da quarant’anni ormai, presentandolo in esposizioni personali a carattere antologico e ne abbia curato, qualche mese fa, la pubblicazione del Catalogo ragionato dell’opera pittorica. Eppure, scorrendo le immagini delle tredici, sapientemente selezionate opere in mostra (dipinti su tela e su carta che coprono un periodo di sessant’anni, dal 1962 al 2022), presto m’accorgo che potrei, forse, ancora aggiungere qualcosa di nuovo su Raciti, magari sviluppando qualche pista di lettura del passato troppo presto abbandonata. Tuttavia, enigmi e misteri continuano ad intrigarmi, ad affacciarsi: è davvero, la sua opera, uno scrigno inesausto di suggestioni. Così, presto s’avanza e si rafforza la convinzione di quanto ancora si potrebbe scrivere sulla ricchezza di quest’opera, che non cessa di essere sorgente di spunti e considerazioni, di collegamenti con la tradizione della pittura e con le stesse condizioni del vivere nei tempi difficili che essa ha attraversato e nei quali ha preso vita. Qualche luce s’accende, a dirmi che nei dipinti di Raciti pulsano cose, magari oscure, che vengono da lontano: dalle esperienze artistiche, dalla poesia e dalla narrativa, dalla amatissima musica e dallo sguardo sulla propria interiorità, che assiduamente Mario ha coltivato. Lentamente cominciano ad affacciarsi due parole, “nuovo” e “antico”, sulle quali comincio a ragionare per avvicinarmi al pianeta Raciti – forse frammenti di una memoria lontana: i versi di una poesia che molti frequentarono sui banchi di scuola, L’aquilone di Giovanni Pascoli, con quell’esordio di “c’è qualcosa di nuovo […] anzi d’antico”…
Molte sono le declinazioni del “nuovo” nella pittura racitiana: in primis, già a un primo sguardo – che necessariamente mai dovrebbe essere frettoloso, come purtroppo le consuetudini del nostro tempo in molti inducono – comprendiamo che essa sfugge a ogni facile inquadramento. Siamo infatti di fronte a svolgimenti che sarebbe arduo incasellare in qualcuno dei tanti movimenti succedutisi negli ultimi ottant’anni – le tendenze, i gruppi, così amati da coloro che si dilettano a delineare i portolani dell’arte moderna, ahimè per loro tuttavia sempre sfuggenti, giacché non sempre è possibile stabilire ove si trovi il finis terrae di un modo di declinare la pittura o di configurare con precisione isole e arcipelaghi entro i cui confini racchiudere certe esperienze artistiche, per di più complesse e ricche come quella così peculiare condotta da Raciti. Ci sono, in verità, nella sua opera, lacerti che qua e là affiorano: un segno vagante, spesso tremulo e incerto; lo sfrangiarsi e l’estenuarsi di un tono; l’improvviso condensarsi di un colore; l’affiorare di una forma che si sottrae e subitamente si dissolve prima di avere raggiunto una configurazione definita e individuabile dallo sguardo. Navigano, queste flebili presenze, queste larve di allusioni, forse inafferrabili e mai compiutamente rappresentabili nella loro totalità, in una sorta di liquido amniotico, indefinibile, uniforme o talvolta vergato da qualche bava e colatura di colore: qualcosa che è insieme superficiale e profondo, che ha rubato qualcosa al cielo, al mare, alle cupezze dell’acqua – nelle recenti Fonti, ecco i viluppi argentei di una cascata, quando gli iridescenti zampilli catturano l’aria –, che potrebbero indurci a proporre qualche accasamento, che presto tuttavia si rivelerebbe asfittico. Davvero si respira, in questa pittura, “un’aria d’altro luogo e d’altro mese e d’altra vita”, per dirla ancora con i versi de L’aquilone. Insomma, Mario Raciti è, da settant’anni ormai, un viaggiatore solitario nelle terre della pittura, un esploratore di orizzonti lontani di cui mai s’intravedono i confini, di visioni riaffiorate nella memoria e di anfratti, soprattutto dell’interiorità, nei quali lui si è inoltrato senza paura, con la levità di un fanciullo. D’altro canto, ci sono, nelle sue opere, echi, larve, affioramenti che ci fanno intuire che “qualcosa d’antico” sia andato ad annidarvisi, linfa segreta che non cessa di alimentarle, giacché lui conosce e frequenta, come già si è detto, la pittura, la letteratura, la filosofia e, last but not least, l’amatissima musica: tutte hanno contribuito, assieme alle vicende della vita, al farsi della sua “educazione sentimentale”. Per di più, i titoli dei cicli che ha sviluppato – Presenze-Assenze, Mitologia, Mistero, Why, I fiori del profondo, Una o due figure, Fonte – sono in un qualche modo criptici, se non addirittura aperti all’ossimoro di una sempre possibile opposta duplicità di interpretazione. La vecchia talpa simbolista – così intimamente amata da Raciti, che ha spesso rivendicato questa affiliazione spirituale – ha scavato nel corso dei lunghi anni in cui Mario ha praticato la pittura.

Soffermiamoci, come sempre è utile fare, davanti alle opere della mostra di Viggiù, in un vis-à-vis che riserva nuove scoperte e rivelazioni. La tecnica mista del 1962 è un superbo emblema di una stagione felicissima dell’artista (gli anni sessanta), intrisa di ironia e di libertà, quando un mondo incantato, di favola, prese forma, con le visioni allungate verso l’alto (talvolta riconoscibili come antenne, sonde, teleferiche, palloni aerostatici, tunnel verso l’ignoto), e l’incanto di una pittura già matura, capace delle più sottili declinazioni e nuances, che a noi si mostra nel suo fulgore.
Le Presenze – Assenze dei primi anni settanta, di cui l’esposizione di Viggiù propone due significativi esiti, dimostrano come Raciti scelse in quegli anni di dare vita a atmosfere che paiono volere sfidare la comprensione del nostro sguardo: un tremulo segno rosso; un agglomerato cromatico che respira aria; tracce di bianchi erranti che moltiplicano, e quasi stordiscono, le possibilità di individuazione della direzione verso cui lo sguardo deve spingersi per comprendere il territorio incognito che sta esplorando, verso una meta mai prestabilita, sempre ignota. Tutto, in queste opere, respira un altrove che se ne sta oltre i confini del quadro.
Nelle due Mitologie della mostra, entrambe datate vero la fine degli anni ottanta, s’è attenuata e ricomposta la frammentazione, così che ci pare possibile individuare una qualche visione di paesaggio o di definizione compiuta, riconducibile a una forma, nell’allusione a colline e montagne, a isole e a confini di mondi, talvolta sfrangiati, seppure di incerta configurazione. La complessità spaziale è aumentata, e si è conquistata un possibile senso unitario, come se assistessimo alla ricomposizione delle disjecta membra di un universo – quello del decennio precedente – frantumatosi, caduto a pezzi. Sappiamo che l’artista si sta misurando con l’evocazione – sempre per frammenti e allusioni – del mito, rivisitandone alcune delle più celebri vicende, quelle che stabilmente sono entrate a fare parte del nostro immaginario, e lo hanno alimentato. Mario rivisita queste storie con la memoria alle rappresentazioni pittoriche che ne furono fatte – pur consapevole di non volerle in alcun modo replicare, ma piuttosto di proporre nuove, irte modalità di racconto –, alle letture critiche, in special modo nei termini sviluppati dall’interpretazione psicoanalitica. Raciti resta, sempre, il cantore di ciò che non si può vedere, che si manifesta solo per indizi e accenni, in un mondo in cui i lacerti di ciò che pure si mostra presto sono destinati a dissolversi – di nuovo nello spirito di quel simbolismo che tanto tenacemente lo ha affascinato nel corso di tutta la sua esperienza. È Mario stesso a gettare luce su ciò che è venuto facendo: “La pittura adombra, ed esprime. Quella che più adombra, a volte è la più intensa”.
I cinque pastelli su carta realizzati al volgere del millennio, tra il 1999 e il 2003, sono di un fascino assoluto: le stesure paiono essersi incupite e concentrate, andando a occupare tutta la superficie, come in un bosco di cui non s’intraveda alcuna radura. In altri esiti si tornano a respirare spazi d’infinito, con la visione che potrebbe provare chi si trovi a guardare le curvature del nostro pianeta dall’alto: l’artista è reduce, ma ancora dentro, l’esperienza di Mistero, in cui alternativamente si era immerso nelle cupezze dell’abisso e nel respiro largo del cielo.
I dipinti in mostra di Una o due figure, datati 2016 e 2018, sono strettamente legati ai cicli precedenti di Why e I fiori del profondo; del resto, nella pittura di Raciti, tra una stagione e quella successiva non c’è mai una cesura netta: certe acquisizioni formali e tonali non vanno perdute, ma transitano, del tutto naturalmente, nei nuovi sviluppi della sua ricerca, fecondati dalle scoperte che la sua riflessione intellettuale e esistenziale va compiendo. Siamo insomma di fronte, nell’opera dell’artista, a una sorta di “eterno ritorno”: un transitare di segni, di forme, di toni, di ripartizioni spaziali, che sono andati costituendosi come la sua lingua e la sua sintassi peculiari – approdi del tutto originali nella pittura degli ultimi sessant’anni, tanto da farne un protagonista autentico, destinato a durare, e non a farsi fuoco fatuo come tante osannate esperienze del sistema dell’arte, quello che da decenni ormai stiamo attraversando. Ecco un’altra ragione per sostenere che in tutta l’opera di Raciti convivono costantemente “nuovo” e “antico”: la persistente innovazione della sua ricerca, l’esplorazione delle “presenze” gravitanti nello spazio o dei mondi visionari che talvolta vi irrompono, si fondono su una personale, cangiante declinazione delle conquiste cui è pervenuto. C’è infatti, nella sua opera, un continuo esplorare e girare attorno a certi segni, a certi grumi di forme, a certi toni, come se quelli fossero una fonte inesauribile di ulteriori conquiste e di nuove avventure della pittura. Nel caso di Una o due figure, il titolo non è affatto criptico: sulla superficie del quadro ecco delinearsi una forma più scandita, di cui possiamo seguire i confini esteriori, e un’altra fantasmatica, colta nel transito tra essere e non essere, allusa per linee, frammenti del corpo, tensioni spaziali – spesso ci paiono, queste figure, impegnate nelle torsioni e nei movimenti della danza –, che l’occhio indagatore e amante delle sottigliezze della pittura vera lentamente arriva a cogliere.
Raciti ha riproposto in questi ultimi anni velature e sovrapposizioni di filamenti biancastri, felicissimi coaguli tonali, che trovano conferma e sviluppo nell’intenso ciclo cui sta lavorando attualmente: le cascate d’acqua di cui pare quasi di udire lo scroscio, dentro i riverberi della luce che la corrente trattiene – ecco, a chiudere la mostra, Fonte, tecnica mista del 2022, con Mario che chiosa un’espressione a lui cara: “luce veggente della cecità”.

Negli ultimi anni, durante il complesso lavoro di preparazione del Catalogo ragionato dell’opera pittorica, al quale Mario ha partecipato con un intenso, totale coinvolgimento personale, anche emotivo, l’artista ha affidato – come messaggi racchiusi in una bottiglia che venga affidata alle onde – due verità che, insieme, sono l’approdo ultimo, e una sorta di autoritratto da trasmettere a chi verrà, di un uomo, Raciti, che mai ha smesso di riflettere sul suo lavoro e sui sentimenti con cui lo andava nel tempo affrontando – basta leggere i molti testi personali, assai illuminanti, racchiusi peraltro in un prezioso volume di recente pubblicazione. Il primo messaggio che Mario ci affida è la frase tratta dal Faust di Goethe, “noi possiamo redimere colui che sempre tendendo si affatica”: sembra dirci l’artista che lui ha lavorato indefessamente, senza vacillare, fedele a una consapevolezza che andava via via acquisendo e facendo propria nel trascorrere degli anni. La seconda verità che Raciti ci consegna è che lui si è posto l’obiettivo di “surrogare la grande pittura del passato, non rinnegandola, come fanno i cultori dell’oggi dedicandosi al banale, al futile, all’effimero, ma riscoprendone i valori etici attraverso l’impossibilità di riproporla: liberandone il fantasma, nella speranza che, così facendo, si cominci a costruire una cattedrale vuota, e auspicando che, un domani, sia costruito un altare”. Questi folgoranti, illuminanti pensieri – accanto al lascito prezioso dei dipinti che ha realizzato e che restano – sono il condensato di una vita e del viaggio, ormai di settant’anni, nei territori della pittura, sono il testamento spirituale che Mario ci affida. Parole di verità esistenziale che dobbiamo serbare dentro di noi e che possono utilmente accompagnarci mentre cerchiamo di cogliere l’incanto e il senso profondo dei dipinti della mostra di Raciti al Museo Butti di Viggiù.