CLAUDIO OLIVIERI – VEDERE A OLTRANZA

La luce: l’origine senza inizio
di Veronica Zanardi

Non ci sono orme. Non si sono perdute: nessuno le ha mai lasciate, nessuno ha mai camminato qui, né vi camminerà mai. A patto di non provocare rumore è possibile il volo.
Tracce geometriche in tensione vorrebbero trattenere una dicotomia, ma i fulmini dei soli hanno già rotto la notte e l’hanno penetrata: la poesia occulta recita insieme lo splendore e la tenebra, dietro evapora l’odore di incenso (Tensionale, 1971, olio su tela).
Si fondano gli specchi del fuoco e della notte (Senza titolo, 1991, olio su tela).
Semmai volessimo conoscere Olivieri esclusivamente abbracciando il suo lavoro, ciò ci sarebbe possibile solo assumendo una posizione atemporale, che permetta di immetterci nel flusso dei suoi colori, abbandonandoci alla consequenzialità del divenire luminoso, poiché questa sembra essere, concretamente, la sua opera.

Allora sarà possibile pensare con la viscosità dell’oro e accorgersi di come il tatuaggio sia ammesso solo se eseguito dalla rugiada o dalla ragnatela (Senza titolo, 1969, olio su tela).
L’analisi di Olivieri si concentra quindi sul colore, l’entità che permette di percepire la luce nelle sue infinite componenti, che possono sfumare a loro volta in tonalità senza numero, e rende coscienti che il tempo non data, ma luce. L’analisi stessa diventa perenne muovendosi con i flussi della materia pittorica, svincolata da dimensioni geometriche: micro e macro si annullano, il colore mantiene la sua identità indifferentemente sulle ali di un insetto o nel riflesso di una galassia. La ricerca, tralasciando il dove, indirizza l’attenzione sulla sua capacità di celare parte della luce, per poi riproporla in un’apparizione inaspettatamente ubicata altrove.
Non esistono assenze: ciò che non si vede, nascosto dietro veli di scuro, attende di essere scoperto; specchi non visti ripetono la magia del riflesso negandone l’origine (Aegeus, 1982-83, olio su tela).
L’ombra è fusa con la luce e rinuncia a guardarla da soggetto, scegliendo di essere con lei un’identica entità: i confini vengono confinati, non ci sono origini, solo un perpetuo pullulare di sorgenti (Thule, 1970, olio su tela). Il colore è rappresentazione di sé, e il suo fluire senza traumi quasi una necessità rituale, la cui liturgia si muove con l’andamento musicale dei sogni o della poesia assoluta: un solo fiato dà voce a più flauti dai toni azzurri o bruni, la terra nel cielo (Aphrodysia, 1986, olio su tela).
La fatica del segno è abbandonata: tiene campo solo il colore che, pur scorrendo, si adagia, o muove appena, a cercare posizioni nuove per la scena successiva, dove porfidi liquidi perdono il respiro minerale e pulsano tiepidi (Rubeo, 2008, olio su tela).
Il bolo del peso si è sciolto, ora la materia è solo luce e mostra come sia possibile sentire dentro di sé il mondo, che l’autore avverte l’urgenza di rappresentare.
Come la scrittura, è abolita la sincope: la sinfonia cromatica evita di essere frazionata, le note di colore si fondono l’una nell’altra in un crescere e smorzarsi di toni, i nodi si sciolgono e l’ambra liquida è pettinata prima di coprirsi con veli di tabacco e sdraiarsi sulla tela (Verso l’interno, 2008, olio su tela).

Non è un luogo dove i colori si stemperano e dove abbia sede la fonte di energia che dà inizio all’opera: è la memoria l’ente che soprassiede al gesto creativo del pittore, è la coscienza del preesistente. La luce apporta con sé l’incessante ricordo del già accaduto, e l’ombra racchiude la stessa profonda oscurità da cui noi stessi proveniamo. La memoria lascia scie capaci di svelare ciò che non è possibile pensare: può placare, con la luce, un affanno e rigenerarci cantilenando la morbidezza del mattino (Occhio fatato, 1998, olio su tela), o con un’ombra improvvisa trascinarci in un doloroso sconforto. Allora un pianto senza singhiozzi soffre a mostrare la sua impietosa cecità (Perdifiato, 1994, olio su tela).
L’incessante avvicendarsi della luce con l’ombra è un moto vivifico, il dipinto diviene salvezza, tutto ciò che si svolge al suo interno scongiura l’immobilità.
La vita è un concatenarsi di enti dinamici, e nei quadri di Olivieri muove la sua danza senza pause e senza ordine di cronicità: bagliori di lampi preludono diluvi (Senza titolo, 1963, olio su tela); l’oscurità non è cieca e ci osserva con occhi di pervinca (Senza titolo, 1977, olio su carta).
Con l’analisi profonda della materia cromatica può prendere vita qualche elemento infero: allora si insinua la paura dell’abisso senza fondo, o si teme di essere calamitati dal non luogo dove viene partorita la luce assoluta. È opportuno percorrere i grandi spazi delle opere di Olivieri lasciando che i possibili dettagli si accostino a nostra insaputa, fiato dopo fiato, come accade ai segmenti di Claudio Verna, lasciando che le ultime ombre del crepuscolo si colorino di desiderio e ci offrano ali sapienti per queste atmosfere rarefatte (Adombrare, 1978, olio su tela).
La luce, allontanandosi, semina distrattamente pepite (Senza titolo, 1965, tecnica mista su carta), un blu si affaccia a vestire la notte (Senza titolo, 1971, olio su carta).
Il giorno e il buio vengono generati contemporaneamente.
Può sembrare inopportuno affidarsi ai titoli per meglio godere delle opere: è presente il timore di voler frazionare un’entità perennemente in crescita, la cui sussistenza dipende dalla sua assoluta integrità. L’utilizzo più opportuno è quindi una lettura che le amalgami, a loro volta, in un corpo unico, ascoltarli come parole di un’ode al dinamismo dei colori, che rifiutano stasi e sequenze obbligate, dove l’ultimo ordinamento è quello che sta ancora verificandosi. I titoli di Olivieri non prendono vita da formulazioni intellettuali, rendono però coscienza di come la sua sensibilità artistica si sia forgiata anche grazie al sapere culturale e mitologico, e di come la sua opera si possa rielaborare e leggere come soggetto letterario. Semmai fosse mancato qualcosa al suo lavoro, sarebbe stato il non volere prendere atto di ciò, ed è questo che Olivieri vi ha aggiunto. Già i disegni giovanili sono frammenti carichi di responsabilità rappresentativa. L’eleganza non lascia che il
segno si esaurisca nella stretta imposizione del supporto cartaceo, ma gli permette di traboccare oltre i confini.
Le tracce sinuose dei corpi femminili, così come l’obliquità delle chine, chiedono di sperimentare l’enigma della notte, in cui tutto è così lontano e così vicino. Il segno, insieme assorbente e volatilizzante, già presago di quella mite ma inflessibile volontà di cambiamento perpetuo, contiene in nuce ciò che sarà la sua pittura.

Il respiro profondo della luce
di Matteo Galbiati

Uno degli insegnamenti più profondi e radicati che Claudio Olivieri ci ha lasciato come eredità è certamente la fede incrollabile e inalienabile nella Pittura che in lui si è sempre rinnovata nel corso della sua vicenda, umana e artistica, e ora continua a rinnovarsi nella testimonianza lasciata attiva in tutte le sue opere, che siano le più note tele o, sempre intensissime in una pari e rispecchiata tensione espressiva rispetto i dipinti, le meno conosciute opere su carta. Per lui l’atto pittorico diventava espressione di una tensione intellettiva spinta oltre la finitezza delle cose reali e, pertanto, era sempre la manifestazione insondabile, pur parziale e spesso sfuggente in una in-determinazione ultimativa e risolutiva delle problematiche sollevate dalle ipotesi preventive, di quel suo caratteristico, continuo e iterato, pensare.
Già perché Olivieri, pare una provocazione ma non lo è, non è stato un artista – oltretutto nella definizione attuale che ne diamo sarebbe quantomeno riluttante nel rispecchiarsi in questa figura o in tale ruolo, sicuramente diffidente ad accoglierlo – perché lui ha vissuto la pratica artistica ed estetica da vero e proprio intellettuale. Un intellettuale del colore, elemento questo unico con cui dibattere, con cui confrontarsi, con cui lottare, amico e antagonista cui dedicare energie, risorse, tempo. Ecco perché considerare la sua figura come quella di un artista sarebbe una limitazione semplicistica nei riguardi del portato potente del suo infaticabile lavoro di cui il colore è stato complice correo.
Il colore è stato, quindi, il mezzo vero e originario della sua poesia dipinta, un tramite esclusivo su cui riversare una fiducia estrema per provare a cogliere, in termini lirici, un principio di verità distante, lontano, inafferrabile. Il colore poteva essere per lui anche elemento vulnerabile, suscettibile, alterabile, impermanente che, esprimendosi in una gamma pressoché infinita di cromatismi in costante evoluzione mutante, allargava ogni volta il portato delle sue capacità espressive, trasformando un traguardo in una nuova partenza, un limite in una frontiera. Olivieri, allora, si metteva all’inseguimento, dipingeva creando ambienti di trascendenza, dove poter ottenere un varco, una soglia di accesso in cui scrutare il lato
nascosto del sapere e della conoscenza e, così, iniziare di nuovo, tornando a riprovare un ennesimo quadro con il quale forse, azzardando una sorte arcana e ineffabile, vincere la sua eterna missione, arrivare a una conclamata verità universale.
Alla Pittura, secondo quello che ci ha insegnato con le sue testimonianze dipinte in oltre sessant’anni di ininterrotte riflessioni e prendendo da lui a prestito una sua definizione esemplare, spetta il compito di tentare la via dell’oltranza del vedere, una missione di non poco conto richiedendo tempo, fatica, sforzo, costanza. Non solo per lui che realizza opere dibattendo con una modulazione infinita di cromatismi raffinati ed eleganti, pure lividi e a tratti intensamente drammatici, ma anche, o forse soprattutto, per chi osserva che viene lasciato silenziosamente solo davanti alla presenza totemica del quadro. Lo spazio vertiginoso delle dimensioni aperte da Olivieri, con la fatica dell’attraversamento del mezzo pittorico, inseguendo piccoli spostamenti e minute variazioni, arriva alla più importante determinazione che in lui è una conquista insperata che per altri, invece, sarebbe stato, dato il minimo riverbero intuitivo della loro sensibilità, un fragoroso fallimento: il punto d’arrivo è aver capito che il segno-gesto che produce la Pittura non è, ne lo sarà mai, risolvibile. Questa non risolvibilità spalanca a Olivieri le porte per far maturare un colore che si esperisce come inscindibile identità spazio-temporale assoluta e trova, poi, nella luce la potenza risonante capace di destare la vibrazione di ogni cromia, sia nelle modulazioni delle ombrosità dove si ritrae riducendosi al minimo ma senza scomparire del tutto, sia nei massimi vertici di chiarore dove sembra sopravanzare, come valore, il tutto. Il colore – pittorico o disegnato – ha, infatti,
inneggiato a un filosofare sapiente tanto che le immagini che sono scaturite dalle sue visioni, non si sono bloccate mai come soggetti plasticamente immobili sulle superfici, ma queste ultime diventavano un luogo permeabile alle emozioni, alle riflessioni, una membrana di spazio intellegibile teso a profondità altrimenti inesprimibili.
Nei bui e nei nitori va alla ricerca del respiro profondo della luce che lo richiama da sempre: alchemicamente ermetiche, le sue cromie hanno nel misterico paventarsi della luce la loro ragion d’essere. Il fattore luminoso, del resto, dà e concede, ma pure toglie e sottrae alla sua Pittura qualcosa che la rende perfetta e puntuale in quella coraggiosa e ardimentosa disputa con il colore. Ecco ritornare al concetto dell’oltranza del vedere che in tutta la sua ricerca non si àncora a una circoscritta e limitata richiesta di intensificare il valore della percezione; non è solo una ipotesi percettiva e, per questo, aver accettato di superare il varco dimensionale del visibile richiede alla luce di essere sostanza attiva, vera e concreta. Le soluzioni da lui trovate diventano un territorio dove rarefazioni e addensamenti,
incandescenze e spegnimenti vogliono e pretendono di ammettere il valore della loro manifestazione come realtà esistente. E per far questo la mente e l’animo devono ragionare, impegnarsi a risolvere i quesiti dello sguardo che si sofferma sull’indefinito in cui Olivieri dissemina tracce della sua investigazione estetico-filosofica.
Vedere la sua Pittura si pone come possibilità ontologica della luce, perché mentre osserviamo il dipinto travalichiamo il suo limite oggettuale e ci poniamo nella condizione di insistere su un processo in divenire di quell’entità che appare nella materia cromatica. Più si schiarisce questo colore sostanziale, passando dai toni oscuri degli anni Settanta a quelli luminosi degli anni Novanta e Duemila, più mette in evidenza lo spostamento in avanti delle sue acquisite intuizioni e, per assurdo, più ci fa vedere e meno ci pare di capire. Il ganglio vitale del suo agire sta qui, nel cercare di farci immergere nel dovere, mai superficiale, del vedere a oltranza una Pittura che smaterializzandosi non si fa possedere né conquistare, ma continua a farci pensare e capire e, tornando a rifarci alle sue parole, è inafferrabile e fluente.
In questo senso il percorso di questa mostra, attraverso un’accurata selezione di opere che coprono l’intera cronologia dell’artista e riassumendo il tracciato intero dell’itinerario vissuto dal complesso linguaggio con cui si è espresso Claudio Olivieri, favorisce proprio il primato di una Pittura mai appagata di se stessa, sempre puntuale e viva che, lontana dal compromettersi troppo con l’inconsistenza parziale e relativa della realtà, ancor oggi cerca di render conto dell’intangibile.