Silvia Negrini

Ascoltare il silenzio
di Veronica Zanardi

La pittura di Silvia Negrini si colloca in un territorio di confine, dove il linguaggio figurativo si riduce all’essenziale, sfiorando la dimensione dell’astrazione senza mai abbandonarla del tutto. Le sue opere presentano ambienti geometricamente costruiti, paesaggi ordinati, interni essenziali e strutture architettoniche rigorose, nei quali la presenza umana è completamente assente. Eppure non si tratta di luoghi anonimi o alienanti, bensì di spazi densi di significato, sospesi in un silenzio carico di tensione e possibilità. L’elemento che colpisce nel suo linguaggio espressivo è la straordinaria sintesi formale. Le superfici lisce e uniformi, trattate con smalti e colori piatti, annullano ogni traccia di gestualità, restituendo un’immagine depurata, dove ogni linea e ogni rapporto spaziale rispondono a una logica precisa. Negrini costruisce la pittura come un sistema di relazioni interne, in cui le forme emergono attraverso schematizzazioni geometriche che evocano una realtà decantata, ridotta alla sua essenza. Nonostante questa apparente freddezza esecutiva, le composizioni non risultano sterili o distaccate. Al contrario, la loro meticolosa costruzione genera un’inaspettata carica evocativa, stimolando nello spettatore una percezione attiva dello spazio. Le architetture dipinte – stanze vuote, piscine immobili, campi da gioco abbandonati, colline prive di vegetazione, isole – sembrano presentire un evento, un accadimento che non si manifesta mai. Questo senso di attesa, unito alla pulizia della rappresentazione, richiama l’atmosfera sospesa della pittura metafisica, pur senza condividerne la dimensione simbolica o narrativa. La ricerca di Negrini si inserisce nel solco della pittura analitica, intesa come indagine sulle strutture linguistiche della rappresentazione. Il suo lavoro non cerca di restituire una realtà oggettiva, ma piuttosto di esplorare il modo in cui lo spazio e le forme vengono percepite e organizzate sulla superficie pittorica.

Un giorno non precisabile, un’intuizione inaspettata dà voce al paesaggio silente; la scena diviene presagio, prende corpo una natura ulteriore e si fa viva una coscienza che osserva il mondo e lo vuole rappresentare. I lavori di Silvia Negrini sono coinvolgenti: la loro fisiologia confluisce nella persona rendendo ogni opera un autoritratto. Seguono un canone mono-linguistico, complesso ma privo di nodi: è insito un rigore rappresentativo, eredità priva di orpelli propria dei rilievi alpini, impressa nella personalità dell’autrice.
Spetta al nudo nascondere ciò che può essere sottinteso e che per essere avvertito, non deve necessariamente apparire: gli oggetti, non riducibili a una funzione, possono risultare funzionali se lacerano la cortina opaca che la natura tesse per celare gli aspetti segreti a cui un’attenzione complice e profonda dà voce.
I lavori della Negrini sono accomunati da una fissità stilistica retta da una ricerca ininterrotta e strutturale, in cui attività teorica e gesto fisico si intrecciano configurando la compiutezza dell’opera. Al fruitore viene proposta una gamma di ipotesi, mai una tesi dimostrabile; non è enunciata una teoria, ma si può evincere una ricerca teorica che è fattivamente imposta dal lavoro.
In ogni manifestazione artistica il primo movimento d’interesse nei riguardi un oggetto, anche culturale, è sempre di natura passionale, quasi fisica; la ragione analitica che, benché ancillare rimane portante dell’opera, segue la suggestione emotiva dalla quale è stata mossa. A supportare questo segmento analitico, la pittrice propone una lettura raffinata e, pur se lineare, complessa: non aggredisce le grafiche geometriche, ma le persuade a un gioco propositivo, aggiornando il concetto di spazio-figura su un panorama criticamente rappresentato (Downhill). L’iconografia della natura viene ripensata (Rain drops on the hillside; An Island; Wood; Wine dark sea) e la sintesi di una geometria -che nasconde minime ma significative variazioni- propone altri punti d’osservazione tali da consentire una sinergia tra natura e segno geometrico, da cui un veritiero connubio tra emozione e lettura critica.
I solidi evadono da una rigidità concepita aritmeticamente, svincolandosi dal peso per lievitare liberamente (Board) e, schierandosi secondo un ordine da loro imposto, raggiungono una disposizione ottimale (Shelf).
Una costruzione geografica proposta in modo perturbante, anche se priva di traumi, può disorientare: la rappresentazione geografica si interiorizza, i tratti geometrici propongono percorsi che mirano al raggiungimento di un baricentro, capace di imporre vettori che esigono la ricerca di territori alternativi.
I luoghi sono sempre dell’anima (Leonardo; A wall; A lair) e gli oggetti custodiscono poteri (Cool desert; Hotel Marinella; Hotel Merinella by night).
Negli spazi, tersi fino a rasentare la trasparenza (Strobo; Iceberg), è possibile meditare per liberarsi dalla polvere e dal sudore che stazionano nel nostro emisfero, e che ricominceranno la loro opera una volta usciti dal campo asciutto e rigenerante che ci è stato offerto.
I dipinti impongono silenzio affinché sia possibile ascoltare ciò che i suoni non dicono: una volta accettata questa esigenza, il silenzio diventa strutturale, come in Summer pool in cui la massa d’acqua quasi solida non emette sciabordio, o in Red House, in cui la totale assenza di vegetazione nega il fruscio verde, e la struttura ripetitiva e priva di errori non contempla possibili scricchiolii. Ciò che si ode non proviene da una vibrazione sonora, ma dalla tensione che attende e immagina il momento in cui possa accadere: allora si fa reale l’urlo di un precipizio, Vertigo; la sussurrata minaccia di un Iceberg; lo sforzo obliquo di un assito alla ricerca della sua posizione ultima, Siccus.
Le cadenze ritmiche di Holes scoprono la struttura musicale dell’opera, e la scelta cromatica ne evidenzia la grafia: da un pentagramma, poggiato su un verde consapevolmente vegetale, emerge la proposta melodica di un tema non vincolato a una sola lettura; le note sono risultanti della semina di vuoti costituiti da buchi neri e dalla solida pienezza di pedine coscienti del loro arancio maturo.
Il valore visivo dei lavori di Silvia non coincide esattamente con la sintesi, spesso solo riassuntiva, ma si impone come tensione volta a limitare alla sola essenza il tema proposto; la progettualità, scaturita da un impulso emozionale, rimane vincolata a un intento analitico mondato da atteggiamenti discorsivi. Il colore, pressoché privo di sfumature, si limita all’indispensabile per la riuscita del risultato: la gamma cromatica non supera, per opera, le cinque unità di colori, che si attestano come parte essenziale della meticolosa sistemazione spaziale e territoriale dell’area creativa.
Gli spazi fissi e immobili chiedono la dinamicità della percorrenza, ed esigono di essere spiati e attraversati.

Una questione linguistica, Silvia Negrini
di Rossella Farinotti

In apnea.
Ci sono degli immaginari che appaiono impossibili da tradurre in qualcosa di visibile, di tangibile. Bisogna essere bravi per farlo. Silvia Negrini, nel suo studio, descrivendo alcuni dettagli, passando da un dipinto all’altro, indica una superficie dai toni scuri. L’opera è composta da due sezioni ben definite, nette, alla sua maniera di dipingere, privilegiando poche gamme cromatiche e la flatness (greenberghiana) tipica del cartoon d’animazione, ma raffinato e densissimo. Le chiedo se la porzione più bassa rappresenta il mare, seppur di un colore scuro. E se, in qualche modo, il taglio sovrastante riprende un cielo, un orizzonte. Si tratta di un’immagine ripresa dall’Odissea, spiega l’artista. “Il mare color del vino”, recita una delle traduzioni del romanzo epico. È proprio un mare colore come il vino, come ho fatto a non pensarci subito. Basta capovolgere la tela e le due forme arrotondate che l’occhio percepisce sono un sole e una luna. Così scuri? Affiorano (o sprofondano) in quelle piccole increspature di mare, ordinate e dalle scale cromatiche stratificate.

Una questione linguistica. 

Il potere delle immagini di Negrini ha una duplice valenza. Quella chiaramente estetica, di un impatto in cui traspare un’ironia pop, dove prevalgono i codici linguistici del mondo del fumetto, del cinema d’animazione e dei soggetti riconoscibili. E poi subentra il lato riflessivo e colto, che mostra l’altro valore, quello concettuale, spirituale. Negrini ha infatti una capacità pittorica che ha assunto in anni di studio, di esercizio, di insegnamento, dove il colore e le diverse tecniche hanno assorbito una consapevole e decisa piattezza e dove i soggetti hanno un timbro efficace e personalissimo. Questi sono alcuni degli elementi stilistici che ricorrono ripetendosi nello spazio della tela proprio come gli oggetti, le linee e i materiali della minimal art. Da questo contesto Negrini sembra attingere anche la sua rigida attenzione alle linee nette, che fanno pensare a un richiamo allo spazio architettonico imprescindibile nella composizione; i colori, come anticipato, sono ridotti alla sintesi con poche scale cromatiche che, per ogni dipinto, cambiano e si combinano tra loro. 

I marroni e i rossi scuri; i verdi e i verdoni; i rossi e i blu; i bianchi e gli azzurri cielo; i gialli e gli arancioni. 

Il marrone non si utilizza in pittura. 

Il verde e il marrone Negrini li utilizza spesso. Sono chiaramente tonalità che richiamano il paesaggio, la natura. Quella natura che la pittrice riprende in maniera a volte anche incessante, come a puntellare lo spazio della tela incasellando i soggetti come in un tetris ordinato. Stratificazioni di paesaggio ancora da seminare; tronchi d’albero tagliati; lastre in legno che formano geometrie; picchi di montagne; dirupi; tane. Il marrone, dunque, rappresenta un punto di partenza per creare altri immaginari, per comporre diverse narrazioni. L’ironia malinconica di alcuni degli episodi tracciati – sempre minimali, netti e sintetizzati – attraverso i soggetti di Silvia Negrini, ha una forza evocativa che viene sprigionata da poche linee e dagli accostamenti cromatici così decisi. Basta un taglio tra una superficie e un’altra per pensare a un limite da varcare, o da rispettare fermandosi. In Vertigo si intravede il paesaggio desertico dell’Arizona, quello dove Willy il coyote e Beep Beep si rincorrono ferocemente, come in un sogno bloccato; affiora in mente anche il momento della decisione finale di Thelma e Louise, o una pausa di riflessione. In A Lair, invece, il dipinto orizzontale è composto da tre livelli decisi di visione panoramica: partendo dall’alto vi è una striscia d’orizzonte (o di porzione di prato) verde acido, poi, a un livello più basso, procede una linea più sottile marrone (ecco) scuro, da questa linea di demarcazione netta si crea un passaggio che giunge nel profondo del dipinto, creando una forma arrotondata, una tana come suggerisce il titolo, dove cercare qualcosa o rifugiarsi. Negrini sostiene che il marrone non sia un colore giusto da utilizzare in pittura, così le hanno sempre detto. Eppure, in studio, è una tonalità che prevale, su cromie diverse, dallo scuro a quello più chiaro. 

Istruzioni per l’uso. 

Pini, terreni lisci, stelle, acqua che straborda da piscine in gomma, tronchi che navigano su una superficie d’acqua netta, impenetrabile, iceberg che non affondano, stelle che si stagliano luminose in cieli blu profondo, vette appuntite, coni di luce che mostrano fiocchi di neve, come un preludio di un lunedì da affrontare, una serie di scavi per delle bare, nel cortile di casa… Questi sono alcuni dei soggetti che Negrini elabora e che rappresenta in maniera continuativa. Ogni contesto è fermo nel tempo. Sospeso come in un romanzo di Banana Yoshimoto, dove natura e interni di luoghi definiti rispecchiano i gesti e i pensieri delle protagoniste. Immagino già una copertina di uno dei romanzi della scrittrice giapponese con un dipinto illustrativo di Silvia. Non si troverà mai una figura umana o vivente all’interno dei dipinti di Negrini. Non c’è bisogno di cercarli: sono passati di li. Hanno osservato le montagne da scalare, hanno creato i buchi nel ghiaccio da cui, ora, sbucano le bandierine; hanno costruito quegli hotel di Riccione da cui l’artista ha estrapolato le stelle in fila in verticale, a rappresentare un punto di pausa, di qualcosa che indica un luogo dove fermarsi; gli umani, ancora, hanno piantumato quel terranno da coltivare, hanno tagliato quei tronchi che scendono pian piano da una vetta, e hanno costruito quella barca che ora è lasciata sola sulla superficie dell’acqua. E hanno superato quei confini e quegli spigoli che hanno trovato sul percorso. Silvia Negrini, attraverso ogni singolo immaginario rappresentato, sembra suggerire delle istruzioni per l’uso per affrontare il quotidiano. Un reale stratificato, che viene sintetizzato per poterlo affrontare un po’ alla volta. Con decisione, ironia, e predilezione verso contesti dove la natura salva un po’ tutto.